"Non so usare la voce quando parlo"

Il professionista vocale artistico e la sua voce quotidiana


Nella presa in carico di cantanti, attori, doppiatori e speaker, ci si imbatte di frequente in una curiosa richiesta: l’educazione della voce utilizzata a scopo comunicativo e non performativo.

 

Il logopedista si trova ad ascoltare un artista che vuole “imparare a parlare”, e riferisce riflessioni come “Quando parlo a lungo la voce si stanca, ma posso cantare senza alcuna fatica”, oppure “la voce che uso in scena mi permette di parlare per ore, ma se chiacchiero con gli amici resto quasi afono”.

La richiesta di questi pazienti (o clienti) ci interroga. È proprio vero che il performer vocale, da anni educato alla consapevolezza del suo strumento vocale durante la prestazione artistica, non sia in grado di usare correttamente quello stesso strumento durante l’atto vocale più immediato, ovvero la comunicazione quotidiana?
…È proprio vero che l’artista “non sa parlare”?

 

 

Il parlato che non funziona
 

I segni che insospettiscono paziente e clinico relativamente alla voce "quotidiana" (e che possono portare alla richiesta di un consulto) sono molto differenti a seconda del soggetto e della sua professione.
Alcuni sono di tipo percettivo, oggettivi per il paziente e per i clinici, come fuga d'aria nella voce parlata, qualità distorte non desiderate e difficilmente compensabili, aggravamento della frequenza fondamentale. Altri sono di tipo funzionale, come ad esempio stanchezza vocale pre performance, bisogno di utilizzare antinfiammatori o umidificare maggiormente il cavo orale se si parla a lungo, aumento dei tempi di recupero vocale.
A volte l'artista è così poco consapevole di questi segnali che i primi ad accorgersi
delle alterazioni del sistema sono gli amici, i familiari o i colleghi, e il loro feedback negativo diventa un primo, prezioso campanello d'allarme.

 

 

Qual è la voce malata?

 

Quando il performer artistico si affida al logopedista sembra possedere due voci differenti: da una parte la voce “impostata”, curata, controllata, elemento imprescindibile dell’atto artistico; dall’altra quella non monitorata, automatica, quotidiana, vista come semplice strumento comunicativo. Un dualismo che arriva a discriminare una voce rispetto all’altra, quasi che la voce artistica sia meritevole di cura e rispetto, mentre l’altra sia una voce di serie B… che “serve solo per parlare”.

La realtà è ben più complessa. In alcuni casi il paziente ha la voce debilitata perché si stanca durante le sue performance e la stanchezza si estende alla vocalità di tutti i giorni. In altri, al contrario, la sua voce resiste durante l’atto artistico grazie a dei buoni compensi ma è comunque destinata a stati cronici di affaticamento o malattia a causa degli abusi vocali nel parlato.

 

Solo conoscendo a fondo il paziente è possibile fare chiarezza. Una buona diagnosi foniatrica, che tenga conto di aspetti organici e funzionali, è la solida base di partenza a cui aggiungere le informazioni condivise con il logopedista. Una raccolta di dati che non termina nella valutazione logopedica iniziale, ma continua lungo le sedute: in questi momenti privilegiati di ascolto, tra autopercezione e counselling, le abitudini vocali dell’artista vengono accolte, studiate e rimodellate.

 

 

L’artista che parla per lavoro

 

Ancora più particolare risulta la condizione del professionista vocale artistico che si trova a parlare per professione. Pensiamo ad esempio ai cantanti che sono anche insegnanti, o agli attori che diventano registi: il loro lavoro passa obbligatoriamente dal parlato.

 

Non dimentichiamo poi l’ambito semiprofessionale, la particolare condizione in cui l’interessato deve integrare l’attività artistica con un altro lavoro. Questa situazione non è rara, soprattutto tra gli studenti che vogliono finanziarsi gli studi di canto o recitazione, o tra gli artisti ad inizio carriera, ma anche tra i professionisti che devono sopravvivere a riconoscimenti economici non adeguati all’autosufficienza. E se la professione integrativa è di tipo vocale, l’impegno complessivo può essere gravoso per la laringe: pensiamo ad impieghi come la commessa, l’addetto allo sportello informazioni, il segretario o il cameriere. In queste e in altre professioni vocali non artistiche, quello stesso strumento che dovrebbe arrivare sul palcoscenico nelle migliori condizioni possibili viene invece sottoposto ad ulteriore stress.

 

Lo stesso problema si riscontra anche fra gli amatori, certo meno coinvolti per quanto riguarda le aspettative di carriera ma non meno motivati nel portare avanti la loro attività artistica. Proprio gli amatori sono talvolta i più affaticati da professioni che richiedono loro un uso vocale intenso o protratto, e si trovano a coltivare la loro passione teatrale o canora con l’ultima voce rimasta a fine giornata!

 

Per tutti questi “parlatori obbligati” avremo lo stesso obiettivo: ridurre al massimo il costo della voce parlata mediante il lavoro riabilitativo (o abilitativo) logopedico, che includerà una buona didattica di sostegno respiratorio e l’ottimizzazione nella gestione delle risonanze.

 

  

Non esiste una voce di serie B

 

Ma allora per quale motivo l’artista vocale si “dimentica” di prendersi cura della sua emissione nel quotidiano?
In alcuni casi, il parlato viene considerato come un momento spensierato dove poter abbassare l’allerta che solitamente si attiva nella performance. Non possiamo tuttavia tralasciare la soggettività indotta dalla dimensione psicologica: mentre molti artisti rifeririscono totale libertà vocale soltanto durante le attività professionali, altrettanti al contrario affermano che la voce più libera è quella del quotidiano, svincolata dalla progettualità richiesta dalla prestazione di palcoscenico.
In altri casi si osserva come il performer vocale sia in realtà uno scarso ascoltatore della propria voce naturale; la sua autopercezione appare allenata solo nella dimensione artistica. E così si incontrano abili cantanti che non riconoscono una fuga d’aria nel parlato, e attori che interpretano come manierismi volontari alcune qualità distorte patologiche nella voce parlata.
In altre situazioni viene alla luce un pericoloso pregiudizio: l’artista pensa che parlare sia più facile, o più naturale, rispetto a cantare o recitare.

 

Alla luce di queste e di molte altre riflessioni, occorre non dare per scontato che l’artista vocale sia in grado di dedicare l’attenzione alla voce da performance anche alle attività vocali quotidiane.

“Non so usare la voce quando parlo” sottintende che la voce dell’atto artistico sia una voce più importante delle altre.


Prendersi cura di tutte le emissioni vocali e di tutte le modalità comunicative, senza prendersela con l’una o l’altra voce, è un dovere sia per l’artista che per il logopedista.

 

 

 

 ©Fabiana Nisoli

 

Photo: ©Fabiana Nisoli, particolare dell'opera "Senza Titolo #T140 (orizzonte)" di Federica Cipriani, Biennale di Soncino (CR) 2017

 

 

 

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